Palermo: installazione “Seme d’arancia” di Emilio Isgrò

L’atrio di palazzo Branciforte di Palermo, restaurato da Gae Aulenti nel 2012, ospita l’installazione permanente di “Seme d’arancia su terra di Sicilia” di Emilio Isgrò. “E’ alto come una fiamma svettante, induce alla fiducia come il fuoco che si accende – dice l’artista – sono orgoglioso di essere siciliano e di stare con siciliani, come ho trovato nella fondazione Sicilia che riconoscono nel mio lavoro un apporto alla voglia di crescita, di liberazione dai vecchi vincoli che la Sicilia ha avuto a volte per mille contraddittorie ragioni”.

L’opera, tra le sculture più note di Isgrò, di recente acquisita alla collezione della fondazione Sicilia, è l’ultimo seme di arancia realizzato in ordine di tempo. Una grande metafora della cultura siciliana e della sua possibilità di rinascita.

Il seme rimanda alle culture del Mediterraneo, solari e avvolgenti, che si sono sviluppate tanto con la parola che con gli scambi, dando vita a valori di convivenza civile e di accoglienza. Il primo “seme d’arancia”, ormai definito “protoseme” fu realizzato dall’artista nel 1998 per la sua città natale, Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese e fu pensato come opera simbolo in grado di rispecchiare la volontà di rinascita di una città vittima della disgrazia mafiosa.

“Anche ‘Seme d’arancia su terra di Sicilia’ – afferma il presidente di fondazione Sicilia, Raffaele Bonsignore – è un simbolo di rinascita in questo periodo così tormentato con il quale abbiamo voluto celebrare i 30 anni di vita della nostra istituzione, affidandoci al linguaggio artistico di Emilio Isgrò che si addice perfettamente alle contraddizioni che segnano la nostra Sicilia”.

L’installazione permanente si inserisce nel progetto “Isgrò Dante Caravaggio e la Sicilia” promosso da Fondazione Sicilia con Amici dei musei siciliani, in collaborazione con archivio Emilio Isgrò e la partecipazione di Fondazione per l’arte e la cultura Lauro Chiazzese. Il progetto di allestimento, curato dall’associazione Lapis, vede l’opera, fusa in bronzo, fissata su una terra tipica della Sicilia identificabile con tutta l’isola e il suo territorio, la selenite, una roccia di gesso macrocristallina. Le molteplici sfaccettature dall’effetto bianco e vetroso ne fanno un materiale suggestivo e interessante fin dai suoi affioramenti visibili sul terreno naturale.

Emilio Isgrò, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, 85 anni, è il padre della cancellatura, un atto che ha iniziato a sperimentare dai primi anni Sessanta e che ancora oggi mantiene la stessa vivacità e audacia creativa. Questa originale ricerca sul linguaggio lo ha reso una figura pressoché unica nel panorama dell’arte contemporanea internazionale facendone uno degli indiscussi protagonisti. È il 1964 quando l’autore inizia a realizzare le prime opere intervenendo su testi, in particolare le pagine dei libri, coprendone manualmente una grande parte sotto rigorose griglie pittoriche.

Le parole e le immagini sono cancellate singolarmente con un segno denso e dello scritto restano leggibili solo piccoli frammenti di frasi o un solo vocabolo. Nel tempo  questo gesto si applica alle carte geografiche, ai telex, al cinema, agli spartiti musicali anticipando le espressioni più tipiche dell’arte concettuale. Il cancellare è un gesto contraddittorio tra distruzione e ricostruzione. Le parole e successivamente le immagini, non sono oltraggiate dalla cancellatura, ma attraverso questa restituiscono nuova linfa ad un significante portatore di più significati: l’essenza primaria di ogni opera d’arte. La cancellatura è la lingua inconfondibile della ricerca artistica di Emilio Isgrò che oggi appare come una filosofia alternativa alla visione del mondo contemporaneo: spiega più cose di quanto non dica.

Dopo l’esordio letterario con la raccolta di versi Fiere del Sud (Schwarz, 1956), si dedica alla Poesia visiva, nel doppio ruolo di teorizzatore e artista. Nel 1966 si tiene la sua prima personale presso la Galleria 1 + 1 di Padova a cui seguono numerose mostre presso la Galleria Apollinaire, la Galleria Schwarz e la Galleria Blu a Milano, La Bertesca a Genova, la Galleria Lia Rumma a Napoli. Nel 1977 vince il primo premio alla Biennale di San Paolo. Partecipa alla Biennale di Venezia del 1972, 1978, 1986 e del 1993, in occasione di quest’ultima con una sala personale.

Di rilievo è anche la sua attività di scrittore e uomo di teatro, consolidatasi con L’Orestea di Gibellina (1983/84/85) e con alcuni romanzi e libri di poesia, tra cui L’avventurosa vita di Emilio Isgrò (Il Formichiere, 1975), Marta de Rogatiis Johnson (Feltrinelli, 1977), Polifemo (Mondadori, 1989), L’asta delle ceneri (Camunia, 1994), Oratorio dei ladri (Mondadori, 1996) e, infine, Brindisi all’amico infame (Aragno, 2003).

Negli ultimi anni sue mostre personali sono state presentate al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato (2008), alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (2013) e, nel 2016, una grande antologica a cura di Marco Bazzini ha coinvolto Palazzo Reale, Gallerie d’Italia e Casa del Manzoni a Milano. Nel 2019 una grande antologica a cura di Germano Celant è stata presentata alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Le sue opere sono presenti nelle maggiori collezioni private e pubbliche nazionali e internazionali.

Palazzo Branciforte, voluto a fine Cinquecento da Nicolò Placido Branciforte Lanza conte di Raccuja, il palazzo diviene una delle più eleganti dimore di Palermo. Agli inizi dell’Ottocento Ercole Michele Branciforte Pignatelli, principe di Butera, cede l’edificio al Senato Palermitano per le esigenze del Monte di Pietà di Palermo, che lo utilizza come filiale del banco dei pegni, destinata a custodire per decenni i beni non preziosi della povera gente, come la biancheria e gli oggetti in rame e bronzo. In omaggio alla Patrona della città la filiale viene devotamente denominata Monte dei pegni di Santa Rosalia anche se alla maggioranza dei palermitani rimane familiarmente nota sotto il nome di “panni vecchi”, con un evidente riferimento ai beni contenuti. Durante i moti rivoluzionari del 1848 il Palazzo viene colpito da una bomba che causa il crollo di alcune coperture a seguito del quale vengono costruite altissime scaffalature in legno, scale interne, palchetti, ballatoi e spazi per custodire gli oggetti, tutto ancora oggi visitabile. È uno spazio fra i più belli del palazzo in cui sembra che il tempo si sia fermato e, insieme, è una preziosa testimonianza della storia di Palermo immortalata negli anni dagli scatti di alcuni celebri fotografi, fra cui Enzo Sellerio.

La Fondazione Sicilia acquista il Palazzo nel 2005 e affida all’architetto Gae Aulenti il progetto di restauro che restituisce alla struttura l’originaria bellezza conferendo al suggestivo complesso una nuova funzionalità rispettando gli elementi architettonici più significativi e l’originaria morfologia e ripristinando gli spazi più rappresentativi, che a causa di vari bombardamenti avvenuti in epoche diverse e di successive destinazioni d’uso, avevano perso la loro funzione originaria: la strada interna che unisce i due ingressi, il cortile principale e la scuderia al piano terra.

Al piano terra di Palazzo Branciforte (nella cosiddetta ‘cavallerizza’) è ospitata la Collezione archeologica della Fondazione che comprende oltre 4.700 reperti, la maggior parte dei quali proviene da scavi archeologici condotti principalmente a Selinunte, Solunto, Terravecchia di Cuti, Himera, ma anche da acquisti effettuati nei decenni passati grazie ai quali si è voluto conservare in Sicilia materiale archeologico di notevolissimo interesse, che altrimenti sarebbe andato disperso. La collezione comprende vasi preistorici, terrecotte, ceramica figurata corinzia, attica a figure nere e rosse e indigena. Si tratta di pezzi di grande rarità e delicatissima fattura. Tra le diverse ceramiche figurate esposte, ve ne sono alcune di grande rilevanza, dal punto di vista storico e artistico, fra cui una figura femminile di “tipo dedalico” della metà del VII secolo probabilmente proveniente da Gela, Erma bifronte del 180 d. C. circa).

La collezione di maioliche è di altissimo pregio storico-artistico, perché al suo interno sono presenti esemplari, siciliani, italiani ed europei, ma anche pezzi provenienti dall’Oriente, realizzati fra il Quattrocento e il Settecento. Il repertorio italiano delle maioliche è composto da pezzi di alta fattura provenienti da Casteldurante, Pesaro, Urbino, Venezia, Castelli d’Abruzzo, Faenza, Deruta, Montelupo, Nove, Savona, Laterza, Napoli, Trapani, Sciacca, Caltagirone, Burgio e Palermo. Le maioliche prodotte all’estero provengono dalla Spagna, Cina, Iran e Turchia. Uno fra i tanti affascinanti pezzi presenti nella collezione è un piatto della cinquecentesca fabbrica di Urbino di Francesco Durantino, probabilmente attivo nella bottega di Guido da Merlino, che illustra la vittoria romana di Scipione a Cartagine, così com’è raccontata da Tito Livio nel testo riportato dall’Autore nel verso del piatto.

Al primo piano del Palazzo sono esposte le collezioni di monete siciliane medioevali e moderne, testimonianza della continuità della coniazione in Sicilia, dagli Aragonesi fino ai Borboni, e una collezione filatelica comprendente anche rari documenti postali. La prima comprende numerose monete in oro, argento e bronzo dall’età più antica, fra il VI secolo d.C. e l’età angioina, e l’anno 1836, in pieno periodo borbonico. Nella collezione filatelica spiccano le prime emissioni di francobolli del Regno delle Due Sicilie, che ebbero regolare corso dal 1858 per il Regno di Napoli e dal 1° gennaio del 1859 per il Regno di Sicilia. All’interno del Palazzo ci sono il Ristorante Branciforte e una Scuola di formazione del Gambero Rosso.

Commenti
Caricamento...

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi