Palermo: trattativa Stato-mafia, condannati Dell’Utri, Mori, De Donno e Bagarella, assolto Mancino

La trattativa Stato-mafia c’è stata. A metterlo nero su bianco è la sentenza della corte d’assise di Palermo arrivata oggi, 20 aprile 2018, dopo 5 anni di processo. Ventotto anni di reclusione sono stati inflitti al mafioso Leoluca Bagarella, mentre 12 anni è la condanna che dovranno scontare l’ex senatore Marcello Dell’Utri; gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, mentre 8 anni è la condanna che dovrà scontare l’ex colonnello Giuseppe De Donno. (foto Ansa In alto da sin: Massimo Ciancimino, Mario Mori, Antonio Subranni. In basso da sin: Giuseppe De Donno, Leoluca Bagarella, Marcello Dell’Utri.)

Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, perché il fatto secondo i giudici non sussiste. Ad essere condannato anche Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro che è stato assolto, invece, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescrizione, invece, per il pentito Giovanni Brusca.

Dopo cinque lunghi anni e 6 mesi di processo è finalmente arrivata oggi la sentenza della corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille. Nel processo era stata indagata la cosiddetta “trattativa Stato-mafia” e la terribile stagione stragista del 1992-1993 quando persero la vita servitori dello Stato e i giudici Falcone e Borsellino, oggi simbolo della legalità in tutto il mondo.

All’ex ministro Mancino, oggi assolto, era stata contestata la falsa testimonianza, mentre gli altri uomini delle istituzioni erano accusati di concorso in minaccia ad un corpo politico dello Stato. Minaccia lanciata dai mafiosi con le bombe. La condanna dei giudici della corte d’Assise di Palermo attribuisce dunque la responsabilità agli ufficiali del Ros per il periodo del 1992, mentre a Dell’Utri per il periodo del governo Berlusconi, quindi 1993-1994.

Per i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, in quegli anni, in quei mesi, gli uomini dello Stato avrebbero trattato con elementi di Cosa nostra. Il fine dichiarato era quello di bloccare il ricatto delle bombe, ma secondo l’accusa gli ufficiali, invece, avrebbero veicolato il ricatto dei mafiosi, trasformandosi in ambasciatori dei boss. Oggi è stata resa nota la sentenza, mentre le motivazioni arriveranno fra tre mesi. Gli ultimi novanta giorni di attesa.

Soddisfazione per la sentenza è stata ovviamente espressa dall’ex ministro mancino che ha scelto di rimanere a casa. “Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo – dice Mancino – che tale è stato ed è tuttora. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa, benché il mio capo di imputazione, che oggi è caduto, fosse di falsa testimonianza”.

Parla di “sentenza storica” in aula il pubblico ministero di Matteo che dice: “ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu. La corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel 1992 e nel 1993, qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi. Contesto criminale e purtroppo istituzionale e politico. Ci sono spunti per proseguire le indagini su quella stagione”.

Parole dure quelle di Di Matteo che continua a commentare puntando il dito anche contro Silvio Berlusconi, non solo imprenditore, ma anche politico. “Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso – dice Di Matteo – questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico, le minacce subìte attraverso Dell’Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell’Utri ha veicolato tutto. I rapporti di Cosa nostra con Berlusconi vanno dunque oltre il 1992”.

Secondo i pm, nel 1992 i carabinieri del Ros avrebbero avviato una trattativa Stato-mafia con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Sarebbe stato lui a consegnare loro le richieste del boss Totò Riina per fermare le stragi. Una circostanza negata dagli imputati. La corte però ha accolto la ricostruzione della procura.

Sempre durante l’inchiesta “trattativa” è emerso che dopo la morte di Falcone, l’allora capitano De Donno chiese una copertura politica per l’operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l’ex sindaco di Palermo) al direttore degli affari penali del ministro della giustizia Liliana Ferraro, che rimandò l’ufficiale ai magistrati di Palermo. La Ferraro, il 28 giugno di quell’anno parlò dell’incontro tra il Ros e Ciancimino con Paolo Borsellino. Da quel momento il mistero si infittisce. Si sa solo che fra le lacrime il magistrato all’epoca disse: “un amico mi ha tradito”. Ma non si conosce ancora l’identità di questo amico e chissà se si arriverà mai a conoscerla.

MANCINO
Ad aver tirato in ballo Mancino nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, era stato il ministro della giustizia dell’epoca, Claudio Martelli che disse di essersi lamentato con Mancino del comportamento del Ros. Mancino ha sempre negato di aver mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli e la corte ha oggi creduto alla sua versione dei fatti.

SECONDA TRATTATIVA

Secondo i pm dell’accusa, dopo l’arresto di Totò Riina il 15 gennaio del 1993, i boss avrebbero avviato una seconda trattativa. Questa volta con Bernardo Provenzano e Marcello Dell’Utri. Mentre le bombe esplodevano tra Roma, Milano e Firenze, un altro ricatto di Cosa nostra per provare a ottenere benefici andava avanti. Dell’Utri era stato il tramite, era stato la “cinghia di trasmissione del messaggio mafioso” hanno puntato il dito i pubblici ministeri. L’anno seguente Dell’Utri riuscì a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative “che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione”. Fra le modifiche anche l’attenuazione del regime carcerario duro per i boss.

LE REAZIONI

“Sono sollevato. È finita la mia sofferenza” ha detto l’ex ministro Nicola Mancino all’Ansa.

Per l’avvocato Basilio Milio, che difendeva l’ex generale dei carabinieri Mario Mori e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, “possiamo sperare che in appello ci sarà un giudizio, perché questo è stato un pregiudizio”.  Secondo il legale della difesa non sarebbero state ammesse tante prove presentate dagli avvocati, fra cui 200 documenti alla difesa e 20 testimoni, tra i quali anche la dottoressa Boccassini, il dottor Di Pietro e Ayala. “E’ stata una sentenza dura – prosegue milio – che non sta né in cielo né in terra perché questi fatti sono stati smentiti da quattro sentenza definitive”.

Vittorio Teresi, il pm del pool che ha istruito il processo, al termine della lettura del dispositivo ha esclamato: “Questo processo e questa sentenza sono dedicati a Paolo Borsellino, a Giovanni Falcone e a tutte le vittime innocenti della mafia”. È stata infatti confermata la tesi dell’accusa che riguardava “l’ignobile ricatto fatto dalla Mafia allo Stato a cui si sono piegati pezzi delle istituzioni. È un processo – conclude – che andava fatto ad ogni costo”.

Per il pm Di Matteo “non contano gli attacchi che abbiamo subito negli anni. Non tutti si sono dimostrati rispettosi di un lavoro che c’è costato lacrime e sangue”.

“La giornata di oggi ha un valore civile e morale straordinario perché quando lo Stato riapre le proprie ferite per provare a stabilire la verità, quando giunge a condannare se stesso, allora riacquista la forza, la dignità e la fiducia dei cittadini”. Così sul profilo facebook scrive il presidente della camera, Roberto Fico.

Per Luigi Di Maio del M5S “con le condanne di oggi muore definitivamente la seconda repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità”.

Ad intervenire sulla sentenza anche l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano che plaude all’assoluzione di Mancino. “Sono ben lieto – ha detto Napolitano – che finalmente gli sia stata restituita personale serenità e solennemente riconosciuta la correttezza del suo operato”.

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