Non molto tempo fa c’era un cane di nome Argo che respirava aria mediterranea. Condivideva il suo spazio con la sua compagna, di nome Fata, nata da un incrocio di cirneco e altro indefinibile. Era una coppia molto affiatata. Un giorno, però, Argo vide la sua Fata esalare l’ultimo respiro. Invano aspettò che il posto accanto alla sua cuccia potesse essere ripreso dalla sua amata compagna. Visse ancora per molti anni e trascorrendo ancora molte stagioni ascoltando il suo padroncino recitare versi in una lingua che non era la solita ma che risuonava nell’aria facendo vibrare le corde dell’anima.
Proprio ad Argo è dedicata la copertina della recente silloge poetica dello sciclitano Salvo Micciché, consulente informatico, fotoreporter e appassionato radioamatore. “Argu lu cani – Cunti, stori e puisia in lingua siciliana” (Edizioni Biancavela – StreetLib, 2016, pp. 100, anche in eBook nelle librerie on line) è un viaggio “onirico-poetico” dove il verso si trasforma in immagini e queste traggono linfa vitale dal suono del verso e, talora, dal suo incalzante ritmo.
Un itinerario che – attraverso anche la rielaborazione di antiche nenie, filastrocche e rime popolari – si presenta come un intreccio di intime dimensioni il cui nodo principale è la loro profondità e le verità che contengono in quanto riecheggianti una saggezza di antico sapore.
Il titolo, mutuato da una lirica contenuta nella silloge, riporta in mente il cane di Odisseo (Ulisse, per i latini), Argo, che è stato per tantissimi anni anche il fidato amico a quattro zampe dell’autore. I versi omerici, volutamente riportati, fanno quasi da preambolo all’iter poetico dell’autore.
Del resto il nome Odisseo presenta anche assonanze interessanti con il concetto di cammino: hodós, in greco, significa “via / strada”. E il metodo (méthodos, ovvero “lungo la via”) utilizzato dall’autore è proprio quello di ripercorrere, tramite l’affettuoso colloquio con il proprio cane (“para ca parra”, sembra che parli), un itinerario ricco di “stori di stori”, ormai cadute nell’oblio, ma terreno di preziosa ricerca volta a ri-scoprire l’appartenenza ad un territorio.
Pensieri, immagini, verso e narrazione si toccano, si abbracciano, si intrecciano, assumendo un ritmo fortemente corroborato dalla forma espressiva dialettale. Il termine “cuntu” fa capolino di continuo come una sorta di mantra. Un viaggio emozionale, emozionante, alla riscoperta di un tempo passato eppur risolutamente presente negli spazi sorprendenti e sconfinati della memoria.
Nel verso non sempre c’è la rima; se c’è a volte è baciata, a volte alternata: come un percorso sinusoidale che ripercorre gli alti e bassi del quotidiano vivere. Le espressioni dialettali, costellate di inflessioni sciclitane, ragusane e catanesi (e forse un pizzico, appena accennato, di modicane), si alternano in tutte le poesie, la dicono lunga sui territori toccati dall’autore e le relative forme gergali metabolizzate nel tempo.
Il suo animo poetico è fortemente legato al territorio e al senso religioso (di qui il Gioia di Scicli, “u Signuri c’abballa”; “abballa” anche “San Giorgi” mentre “u Battista” gira a “Rrausa” con la “cira nne strati”). Il fascino dei luoghi della sua Trinacria, amabilmente definita “Isula” e deliziosamente immaginata come “pitrudda cu tri punti” (piccola pietra a tre punte), è rimasto immutato, in essi permane una sottile malia che trasporta l’animo in un tempo senza tempo dove l’unica realtà che conti è l’amore perché la “Sicilia jè terra d’amuri, terra do Signuri. Terra ca sinna la strata rô Livanti ô Punenti” (la “Sicilia è terra d’amore, terra del Signore. Terra che segna la strada dal Levante al Ponente”).
Un testo, dunque, di gradevolissima (e nutriente) lettura. Il piacere immaginifico-sensoriale trasmesso dalla lettura dei versi – piccoli fiori poetici dai mille volti – affiancati dalle traduzioni – è un continuo crescendo: da “Ti cuntu ‘n-cuntu” alla “Prijera ppi turnari a casa”, da “’U cuntu scurdatu” a “Pàvala a pìvala” (una sorta di scioglilingua), giusto per citarne alcuni, graziosamente presentati in una sorta di tavolozza ricca di colori dalle sfumature diverse.
Al lettore il piacere di “scovare” nell’accattivante silloge di Micciché le intime dimensioni di cui sopra, da mettere magari a confronto con i propri criteri, con le proprie sensibilità, che, consciamente o meno, entrano in gioco quando si esplorano con acutezza aspetti introspettivi del quotidiano le cui radici si rintracciano in una tradizione che si perde nelle pieghe del tempo.
Giuseppe Nativo