Niscemi (Cl): operazione antimafia “Guardian”, 7 arresti

Sette persone sono state arrestate tra Niscemi e Acate nel nisseno, nell’ambito dell’operazione antimafia denominata “Guardian” e condotta dagli agenti della polizia di Stato.

Le manette sono scattate ai polsi di Sebastiano Montalto, già detenuto nel carcere di Augusta; Francesco Amato, già agli arresti domiciliari; Salvatore Di Pasquale, anche lui già ai domiciliari; Damiano Rizzo, Giacomo Cultraro, Giuseppe Ferrera e Giuseppe Pisano, tutti di Niscemi.

Dovranno tutti rispondere di associazione a delinquere di tipo mafioso ed estorsione avendo posto in essere numerose condotte estorsive mediante minaccia, implicita e larvata, di ritorsioni consistente in furti e danneggiamenti ad aziende agricole e serricultori operanti nel territorio di Niscemi, Acate e Vittoria.

Gli arrestati, dopo gli adempimenti di legge, sono stati rinchiusi nei carceri di Caltanissetta e Ragusa. Le indagini anche tecniche esperite dalla squadra mobile in collaborazione con il commissariato di Niscemi, iniziate nel febbraio del 2010 e conclusesi a luglio dello stesso anno, hanno consentito di acquisire elementi probatori in ordine agli episodi estorsivi elencati, posti in essere dalla consorteria mafiosa, cosa nostra di Niscemi, con il tipico metodo dell’imposizione della guardiania ai produttori o proprietari di serre che ricadevano nelle campagne del territorio tra Acate, Vittoria e Niscemi.

In quei luoghi, i guardiani Ferrera Giuseppe, Rizzo Damiano, Pisano Giuseppe, Cultraro Giacomo, avvalendosi della forza intimidatrice tipica dell’appartenenza alla consorteria mafiosa cosa nostra niscemese, con a capo Amato Francesco e Montalto Sebastiano, imponevano il “pizzo” anche con l’uso delle armi.

Parallelamente veniva svolta attività di indagine da parte del nucleo investigativo dei Carabinieri di Ragusa a carico degli stessi odierni arrestati i quali operavano imponendo la loro prestazione di guardiania a proprietari di serre ubicate nel territorio di vittoria (RG). Nell’ambito dell’indagine, più volte accadeva che, con le intercettazioni, venisse colto l’attimo nel quale avveniva la riscossione della tangente pagata dal proprietario dell’azienda agricola di turno, vittima dell’imposizione della guardiania.

Il provento della suddetta attività serviva, da un lato, per pagare la manodopera prestata dagli stessi guardiani (circa € 1.000 mensili) e dall’altro per il sostentamento dei familiari del loro capo, Sebastiano Montalto, mentre quest’ultimo si trovava detenuto in carcere. Il particolare interesse della consorteria mafiosa cosa nostra niscemese ed, in particolare, degli odierni indagati, nella gestione della cosiddetta “guardiania” delle serre, operata o nel territorio niscemese ed in quello ragusano ed in particolare nella zona Macconi – Marina di Acate, trovava la sua ragione d’essere non solo nel ricavare un illecito introito economico ma anche nell’interesse di mantenere un controllo diretto su un territorio storicamente già utilizzato dai sodali per nascondervi i loro latitanti.

Tra i compiti dei guardiani vi era quello di individuare luoghi che ben potevano prestarsi a divenire covi nonché fornire supporto logistico svolgendo il compito di vivandieri ai numerosissimi latitanti che negli anni si sono rifugiati in detta zona. Tale circostanza trovava conferma nelle dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia interpellati nel corso delle indagini, i quali hanno riferito della latitanza dei noti fratelli Alessandro e Daniele Emmanuello, Celona Emanuele e ancora prima, Rinzivillo Antonio, Passaro Giovanni, ed altri nel corso della cosiddetta guerra di mafia degli anni ’90.

Per tali motivi la consorteria non trascurava tale attività illecita che a volte veniva “camuffata” come attività lecita mediante l’assunzione da parte delle aziende agricole della zona di sodali adibiti alla guardiania, mentre, di fatto, tali assunzioni venivano  chiaramente imposte dall’organizzazione concretizzandosi una vera e propria estorsione, essendo i titolari obbligati dal timore di subire eventuali od ulteriori danni alle proprie serre. Infine com’è emerso nel corso dell’indagine, i soggetti coinvolti in tale attività effettivamente compivano la loro funzione di guardiani, anche nottetempo, proprio per dare un forte segnale della loro presenza sul territorio al fine di ingenerare nei loro confronti una forma di fiducia a vantaggio della loro figura di “mafiosi” e dare nello stesso tempo “protezione”.

Dalle intercettazioni emergeva anche che il modus operandi di detti guardiani era inizialmente volto a causare danni contenuti alla vittima designata, per farle poi capire che era necessario avere protezione se voleva evitare danni ben peggiori. Infatti era direttamente il guardiano, a cui veniva assegnata la competenza di una data zona, che, dopo aver appiccato ad esempio un incendio alle serre prese di mira, chiamava direttamente i vigili del fuoco per farli intervenire ed arginare l’incendio.

Altro modo per fare capire alle vittime designate che dovevano pagare il servizio di guardiania era quello di effettuare ingenti furti nelle serre. Inoltre, dalle attività tecniche emergeva che, una volta che riuscivano ad imporre le estorsioni, i guardiani avevano persino la sfacciataggine di collegare gli allarmi installati nelle ditte con le loro utenze cellulari ove ricevevano il messaggio di eventuale infrazione.

Le investigazioni hanno confermato la circostanza che soltanto ai soggetti vicini agli odierni indagati era concesso di espletare l’attività della guardiania; significativo infatti risultava il fatto che l’odierno indagato, Pisano Giuseppe, pur non avendo pregiudizi penali, fosse il fratello del noto Vincenzo Pisano, killer della consorteria mafiosa di cosa nostra niscemese, condannato a 28 anni di reclusione in quanto riconosciuto responsabile del duplice omicidio di Trubia Emanuele e Sultano Salvatore avvenuto a gela il 21.07.1999 nella cosiddetta strage della sala da barba. L’operazione di polizia giudiziaria, denominata “Guardian”, consentiva quindi di assicurare alla giustizia gli odierni arrestati, grazie al minuzioso lavoro investigativo posto in essere.

Maria Chiara Ferraù

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