Ragusa: la figura di Teodorico I nell’opera di Carlo Ruta

Per le aristocrazie romane era un barbaro, ostrogoto, ma la sua esperienza di re dei Goti e dei Romani, di fatto re d’Italia, fu straordinaria.  Non fece l’Italia perché nella sua epoca un’impresa del genere non era possibile, ma, in qualche modo, secondo l’autore del libro appena uscito in libreria, la «incubò» e la immaginò, prima che per il paese arrivasse il tempo della catastrofe.

In questa opera di Carlo Ruta, la figura del sovrano goto viene passata al vaglio in maniera del tutto innovativa, da prospettive poco esplorate, con esiti significativi, che mettono in rilievo l’esemplarità di un uomo di Stato che operò per il benessere del suo paese, per oltre trenta anni, e che spinse la storia d’Europa in avanti, attraverso il rilancio della civilitas romana ma anche attraverso la prefigurazione, appunto, del cambiamento. Si era nel punto di lacerazione tra il mondo antico e il Medioevo.

Teoderico, re goto in Italia dal 493 al 526, si presenta come una delle figure più forti ed emblematiche dell’Europa tardo-antica. Attraverso la sua vicenda politica egli riesce a rispecchiare la complessità di un’epoca, di transito: disordinata, ambigua, travagliata da radicalismi ma percorsa anche da esperienze di convivenza etnica, di pluralità, di compostezza civile, di decoro urbano e di contagio religioso e culturale. Il re barbaro in questo sommovimento politico, sociale e culturale finì con il generare un modello di Stato che ambiva a spendere con lucida determinazione le eredità del passato mentre inaugurava un tipo di convivenza etnica originale: chiuso e tuttavia plurale, segnato da rigidi protocolli identitari ma in grado di generare, nel concreto delle cose, costumi condivisi.

Egli volle essere rappresentante e arbitro di mondi distanti che, senza nulla cedere delle tradizioni cui più tenevano, riuscirono per decenni a eliminare dall’orizzonte civile lo scontro etnico e di religione. Tra i Goti, comunemente di fede ariana, e gli Italici, cattolici, furono tutto sommato tempi di normalità, retti da una misurata concordia. E questo modo di convivenza, freddo ma per tanti versi fecondo, contribuiva a ricomporre nel paese la vita delle città.

Lo Stato teodericiano faceva i conti in maniera esemplare con il passato di Roma, assimilandone gli elementi più produttivi, giuridici, economici e tecnico-costruttivi. Si faceva inoltre garante di grandi tradizioni di pensiero, greche ed ellenistiche in particolare, attraverso l’apporto di filosofi e letterati tra i più significativi della tarda antichità. Boezio e Cassiodoro, ministri e consiglieri del re goto, lasciarono eredità decisive sul piano dell’organizzazione dei saperi e, in particolare, della custodia delle classicità, mentre si formava, in disparte, una delle figure più eminenti del mondo cristiano, Benedetto da Norcia, che con la sua Regola avrebbe interagito in maniera feconda con i progetti della tarda maturità di Cassiodoro, fondatore del Vivarium.

Solo negli ultimi anni gli equilibri garantiti da quell’esperimento di governo cominciarono a incrinarsi, per cause legate soprattutto ai rapporti travagliati con l’Impero d’Oriente. Ma anche in quei contesti, i dissidi interni, pur significativi, non produssero nel paese grandi devastazioni. Goti e Romani, ariani e cattolici nel concreto delle città riuscirono a fermarsi, a placare le tensioni e spegnere lo scontro civile che minacciava di erompere, mentre si apriva una fase di intrighi da “basso impero” interpretati da un Senato sempre più travagliato da partigianerie. Era per certi versi l’ultima chiamata alle armi di un’aristocrazia che in larghissima parte aveva smarrito il senso dello Stato. Poi, morto Teoderico nel 526, il regno goto precipitava in una profonda instabilità ed infine, per iniziativa di Costantinopoli, in uno stato di guerra che in un paio di decenni ne avrebbe determinato la fine.

Carlo Ruta, Teoderico. Il re barbaro che immaginò l’Italia, Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa-Roma, pp. 144, gennaio 2019.

 

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